Siamo tutti Oliviero Toscani?

– Fu Rosa la pantera – febbraio 2023

Quando ero adolescente, ogni settimana andavo alla Benetton di Via Scarlatti al Vomero ad acquistare una delle t-shirt con su stampate le foto delle campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani; fino a collezionarle. Erano gli anni ‘90 e avevo già chiaro quanto fosse importante la comunicazione. Quelle stampe non erano solo delle riproduzioni di scatti nati da una mano esperta, ma messaggi provocatori, sociali e politici di forte impatto. Mi piaceva indossare quelle magliette delle cui stampe mi facevo veicolo: le mani di colore diverso protese a testimoniare la lotta al razzismo, l’esercito di pinocchietti di diverse sfumature di legno in esortazione a non trasformarci in burattini. Senza tralasciare quelle più forti: un prete e una suora che si baciano, gli organi vitali sanguinolenti piuttosto che una sfilza di profilattici colorati a ricordarci dell’HIV. Ho sempre avuto in me la volontà e la necessità di dire; a volte provocando stupore altre biasimo, comprensione e fraintendimento. La forma di comunicazione alla quale mi sono da subito affidata è stata la scrittura: un tema, un diario, un blog, un racconto. Cambiando supporto nelle mie fasi di crescita. Comunicare era: scrivo tutto quello che voglio dire. Crescendo ho concentrato la mia comunicazione nello studio di una lingua orientale in cui a rendere speciale la comunicazione non erano solo le parole che suonavano nuove all’orecchio, ma un mondo pittografico dietro ogni concetto che apriva molteplici e talvolta poetici significati. Comunicare é diventato imparare a decifrare un codice. Il mio rapporto con la comunicazione visiva si è modificato negli anni. Da che ne ho memoria sono sempre stata affascinata dalla fotografia sviluppando un odio sincrono nei confronti dei video: quelli che mi vedevano in qualche modo protagonista. Un paradosso: amo comunicare detesto la mia voce. La fotografia che si imprime sulla pellicola e le attese legate al processo di stampa ancora oggi mi affascinano al tal punto che mi piacerebbe frequentare una camera oscura. Ricordo di aver acquistato con i primi guadagni una compatta digitale; che, essendo una novità mi è costata un occhio della testa, oggi un vero sproposito. La digitale significava libertà. Libertà di sbagliare inquadratura, di fare foto oggettivamente mal riuscite, di dare vita a sfocature penalizzanti e soprattutto la possibilità di provare e riprovare fino ad affinare la tecnica, il nostro stile personale. Oggi sono una instagrammer e lo sono dalla creazione del social, che ormai ospita un numero di scatti impossibile da immaginare figuriamoci da pronunciare. Non ho la presunzione di essere una “fotografa”, mi ha insegnato un nuovo modo di comunicare, una visione ogni volta diversa. Ho imparato a fare attenzione ai dettagli, a valorizzare un fiore sfiorito, a stupirmi davanti ai tanti modi di comunicare che incontriamo ogni giorno semplicemente passeggiando. Ognuno a suo modo ha tanto da raccontare: lo scatto che accompagna queste mie parole ha ispirato mia figlia, la più piccola, a inventare una storia dal titolo “Fu Rosa la pantera”. Comunicate! Trovate il vostro modo per non stare zitti e soprattutto per ascoltare tutti i modi usati per comunicare soprattutto quelli più difficili da decifrare. Personalmente fotografo quello che mi dice qualcosa, quello che non mi lascia indifferente è un esercizio che viene fuori con la pratica e con il tempo.

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