IO RESTO A CASA

Viveva in quella casa da 10 anni e non si era mai affacciata alla finestra che dava sulla via principale, non lo aveva mai fatto, non ne aveva mai sentito il bisogno. Era sempre stata libera di chiudersi la porta alle spalle e correre in strada ogni volta che lo voleva o lo riteneva necessario. Da qualche giorno non era più così e spontaneamente nel passare dei giorni si era avvicinata alla finestra. Si era accorta che uno strato di polvere non rendeva nitidi i vetri, che il legno delle imposte in alcuni punti era scheggiato, che al di là della sua finestra c’era un mondo che non conosceva.

Nel trascorrere dei giorni e delle ore, aveva simpatizzato con questo suo nuovo appuntamento. La colazione ormai la consumava in piedi dietro i vetri, il tè del pomeriggio, la birra per regalarsi un po’ di euforia o la tisana della sera si davano appuntamento alla finestra, davanti a quel paesaggio immobile eppure ogni volta diverso.

Qualche giorno prima non avrebbe saputo dire di che colore fosse l’intonaco del palazzo di fronte, ora ne conosceva le crepe, gli sbalzi di colore della vernice, i mattoni rovinati; poteva disegnarne ad occhi chiusi il perimetro, con le sue sporgenze e le sue rientranze.

Che avesse in mano una tazzina da caffè, una tazza fumante o una bottiglia ghiacciata si avvicinava quasi in punta di piedi davanti a quello schermo inedito.

Si era accorta che i fiori erano timidamente sbocciati, aveva cullato le gemme e le aveva viste aprirsi, aveva fatto caso che le auto parcheggiate in fila pur seguendo una cromia del tutto casuale risultavano armoniche.

Aveva iniziato ad immaginare la vita nelle case degli altri e a conoscerne i protagonisti man mano che uscivano sul balcone o che scuotevano i tappeti alla finestra.
Al primo piano abitava un signore distinto, ogni giorno indossava giacca e cravatta e aveva l’aria di essere coinvolto in un impegno lavorativo, sebbene anche lui fosse stato condannato alla reclusione, a causa dell’età evidentemente. Uno di quei signori che dopo aver indossato l’abito per una vita intera non riusciva a vedersi in maniera diversa anche se in pensione.

La moglie non usciva mai, forse era malata o forse per amore lui la preservava come un fiore. L’aveva visto spazzare il pavimento, innaffiare le piante, stendere il bucato con una routine ineccepibile; quando le capitava di perdere il senso della realtà e di non sapere che giorno fosse le bastava pensare al signore distinto e alla mansione che aveva svolto quella mattina. Aveva innaffiato i fiori? Era sicuramente sabato!

Esattamente un piano sopra viveva una allegra famigliola, li aveva visti avvicendarsi tutti: i bambini, due maschietti con i capelli a caschetto, giocavano spesso a pallone; la mamma con il telefono tenuto dalla spalla e in mano una pentola, un piatto, un vestito da lavare usciva per urlare loro di stare attenti, di non colpire i fiori, di non fare troppo baccano; il padre lo vedeva la sera sul tardi quando tutti erano a letto a fumare una sigaretta, a conclusione di una giornata caotica e stressante. Era l’unico che ancora usciva di casa, forse era un medico o un infermiere, ma no ora che lo osservava meglio le aveva dato il resto in cassa, con un sorriso, giusto una settimana fa. A volte terminata la sigaretta rientrava subito, altre si fermava a guardare il cielo e a far defluire i pensieri.

All’ultimo piano erano giorni che vedeva le tapparelle alzate ma non scorgeva mai nessuno, neanche un’ombra passare e anche di sera la luce era fioca e si percepiva a malapena dal di fuori. La incuriosiva quel piano, quasi in maniera morbosa ogni giorno di più.
Al primo piano della palazzina accanto, quella che riusciva a vedere appena abitava una ragazza, si capiva che era da sola perché passava molte ore in terrazzo al telefono e si capiva che molte delle telefonate erano rivolte ai familiari lontani. Spesso si sentiva osservata e sorridendo, con un sorriso fresco e luminoso, le faceva un cenno della mano. Oramai era diventata una presenza rassicurante, un’amica al di là della via, di quelle che magari non incontri spesso ma che ti fanno sentire bene per il solo fatto che ci sono.

Chissà se il signore distinto si era accorto di lei, se raccontava alla moglie della ragazza con la tazza in mano che si appropriava un po’ della sua quotidianità ogni giorno. Chissà se i bambini sapevano di essere guardati, chissà se la ragazza sapeva quanto le faceva bene ricevere quel saluto.

Chissà chi era ad accendere quella luce fioca tutte le sere all’imbrunire.

Nella solitudine di quei giorni, aveva scoperto che tutte le sue certezze si erano frantumate, dissolte, come quei nuvoloni che aveva visto al mattino e che all’ora del tè avevano già fatto fagotto.

Dalla sua quarantena, senza possibilità di fuga, senza una qualsiasi autocertificazione plausibile, anelava una passeggiata al parco, una colazione al bar, un abbraccio o semplicemente una stretta di mano. Si sentiva improvvisamente uguale al signore distinto e anche alla sua vecchia signora, uguale a quei bambini che mal sopportavano quella clausura e uguale anche a quell’abatjour che dal comodino rischiarava la stanza.

Seppur isolata si sentiva pronta a fare la propria parte, un sacrificio che avrebbe aiutato quella mamma multitasking e quel papà oberato di lavoro, quei medici dei quali non conosceva il volto ma dei quali si trovava ad applaudire le gesta.

Stranamente quella chiusura forzata non l’aveva chiusa in sé stessa, avrebbe voluto invitare a cena tutti i suoi dirimpettai, farsi raccontare le loro storie e mostrare quanto erano belle le loro vite viste dalla sua finestra, avrebbe voluto parlare con loro e chiedere scusa per non averli mai notati.

 

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